Ci sono giornate in cui lo sport smette di essere semplice competizione e diventa racconto umano, specchio di un tempo e di un luogo. Il 26 settembre 2025 a Kigali, capitale del Ruanda, è andata in scena una di quelle giornate destinate a restare. L’Italia ha conquistato il titolo mondiale Under 23 con l’oro di Lorenzo Mark Finn, ma il vero successo è stato di una squadra intera: Finn, Pietro Mattio, Simone Gualdi e Alessandro Borgo. Quattro ragazzi, una sola anima.
Il loro abbraccio sotto il traguardo, il gesto della freccia che Finn ha scoccato come promessa mantenuta, le parole semplici e autentiche scambiate con i giornalisti — tutto questo ha reso memorabile la giornata ben oltre la classifica.
Non era un mondiale qualsiasi. Era il primo, storico Campionato del Mondo di ciclismo su strada in Africa. Kigali, città verde adagiata sulle colline, porta ancora sulle spalle il peso di una memoria tragica: il genocidio del 1994, quando oltre 800.000 persone, tra Tutsi e Hutu moderati, persero la vita. Da allora, il Ruanda ha percorso un cammino difficile, fatto di riconciliazione, di ricostruzione e di speranza.
Lo sport, in questa cornice, ha assunto un valore simbolico enorme. Non solo ciclismo: era un incontro fra continenti, fra storie e ferite, fra giovani che pedalano verso il futuro e un popolo che continua a risollevarsi.
Lungo le strade di Kigali, i corridori sono stati accolti da folla festante, bandierine colorate, sorrisi bianchissimi. Un entusiasmo che andava oltre la competizione, quasi un abbraccio collettivo a chi portava energia, visibilità e passione.
La gara degli Under 23 si è decisa con coraggio. A pochi chilometri dalla fine, Lorenzo Mark Finn ha trovato la forza di partire, staccando il gruppo. Una progressione potente, un attacco che profumava di sogno. Quando ha tagliato il traguardo, la gioia è esplosa: la freccia scoccata verso il cielo — gesto promesso a un compagno di allenamento — è diventata icona.
Ma il risultato non si misura solo in quell’oro. Dietro, Simone Gualdi, Pietro Mattio e Alessandro Borgo hanno portato a termine la loro prova con onore, arrivando compatti, a pochi secondi di distanza. Le classifiche li collocano dal 28o al 30o posto, ma il loro valore sta nell’essere stati parte di una storia collettiva. Una squadra che ha corso come gruppo, che ha protetto e sostenuto, che ha condiviso fatica e gloria.
C’è una frase che ha fatto sorridere tutti, più di mille dichiarazioni studiate a tavolino. Subito dopo il podio, un giornalista ha chiesto a Pietro Mattio cosa avrebbero fatto quella sera. La risposta è stata disarmante:“Giochiamo a carte e facciamo un po’ di festa.”
Nessun proclama, nessun eccesso. Solo la verità di ragazzi di vent’anni che, nonostante la maglia iridata, restano fedeli a ciò che sono: giovani con la voglia di stare insieme, di ridere, di vivere con leggerezza anche un momento storico.
Le immagini lo hanno confermato: i quattro tutti abbracciati, sorridenti, semplici. L’inno di Mameli cantato con entusiasmo più che con intonazione, e poi lo sguardo incredulo di chi capisce che sta vivendo un frammento irripetibile.
Il mondiale di Kigali ha messo in luce non solo il talento dei corridori, ma anche la potenza dello sport come ponte culturale. Mentre i ragazzi italiani pedalavano tra le strade della capitale ruandese, la folla li accompagnava con grida, tamburi, applausi. Una popolazione spesso raccontata solo per guerre, epidemie ed emergenze, ieri è apparsa al mondo con la sua vitalità, la sua gioia, la sua bellezza.
L’incontro fra gioventù europea e gioventù africana è stato toccante. I bambini correvano accanto ai ciclisti nei tratti in salita, con occhi spalancati e risate contagiose. Le famiglie applaudivano, i ragazzi sventolavano bandiere italiane e ruandesi, in un clima che aveva il sapore di festa globale.
Non resterà solo l’oro di Lorenzo Mark Finn. Non resteranno solo le classifiche ufficiali. Resterà il ricordo di quattro ragazzi italiani capaci di vincere con leggerezza e autenticità. Resterà l’immagine della freccia sotto il traguardo, dell’abbraccio corale, della frase semplice che racconta più di qualsiasi analisi tecnica: “giochiamo a carte e facciamo un po’ di festa”.
In un’epoca in cui lo sport spesso si piega a logiche di mercato, contratti milionari e spettacolarizzazione, questi giovani hanno riportato tutto alla sua essenza: la passione, la squadra, l’umanità.
Quel giorno a Kigali, trent’anni dopo il genocidio, l’Italia ha cantato il suo inno davanti a un popolo che ha saputo rinascere. E lo ha fatto non con proclami solenni, ma con il sorriso di quattro ragazzi che, stretti in un abbraccio, hanno ricordato a tutti che lo sport può essere bellezza pura.
Una freccia tricolore è stata scoccata sotto il cielo africano. È volata leggera, come un simbolo di gioventù, amicizia e speranza. E, almeno per un giorno, ha unito due continenti in un’unica emozione.
Articolo di Erika Mattio